Peppe Lai è quel tipo d’uomo che se non ci fosse bisognerebbe inventarlo. Non solo per il suo magnifico senso dell’ospitalità, ma pure per quella sua inestirpabile radice che pesca nella terra buona degli antichi. Se ogni paese dell’Isola avesse il suo Peppe Lai, della memoria storica che ci contraddistingue come popolo – parte fondamentale di quell’identità che vantiamo e di cui siamo fieri – non sarebbe andata smarrita neppure una briciola. Lui, settant’anni fa, c’è proprio nato a Dualchi, borgo agropastorale di ottocento anime adagiato sull’altopiano del rio Murtatzolu, tra i fratelli Borore, Bortigali, Silanus, Lei, Bolotana, Ottana, Noragugume e Sedilo.
Peppe è stato capo cantoniere nella zona di Macomer e dopo trentasei anni di manutenzione delle strade da dieci si gode la pensione. Ma non in ozio: alle cinque e mezza è già in piedi per attendere alle sue faccende. Lavora la terra, Peppe: ”La vita in paese è tranquilla. Il fatto è che non c’è gente”, sospira. Poi ci ripensa e sarcastico aggiunge: ”Poltronìa c’è, a bizzeffe!”, un po’ arrabbiato perché gli uliveti di Dualchi stanno andando in rovina. È appunto per non ammalarsi di ”poltronìa”, come la chiama lui, che s’è inventato artigiano del legno e del sughero.
Riproduce gli strumenti della tradizione: da quelli del pastore e del contadino a quelli della filatura, dagli oggetti d’arredo ai giochi, dalle maschere ai bastoni da passeggio. Ma non è tutto. Da quindici anni Peppe – che per dodici è stato presidente della Pro Loco e ora ne è vice presidente – colleziona e cataloga ogni segno dell’Isola che fu, tanto che la mansarda della sua casa di via Sardegna ospita circa duemila pezzi in perfetto stato di conservazione: un vero e proprio museo etno-antropologico.
Con etichette bilingui sardo-italiane, casa Lai accoglie gli strumenti della settimana santa, bandiere de Santu Giuanne, corronetas antivolpe per salvaguardare gli agnelli, s’argada per strigliare il lino secco, s’órriu in pelle di cane – quello usato dai banditi per far scappare i cavalli dei carabinieri, racconta lui – trappole per topi in ferula, forbici per acchiappare anguille, telai, selle per asino da passeggio e per caricare legna, aratri, gioghi da buoi per arare e per carro, la macchina dell’arrotino…
Abbiamo detto duemila! Spesso risalenti a centinaia d’anni fa. ”Girando nelle zone vecchie del mio paese e del circondario, mi sono appassionato alla salvaguardia dell’antico patrimonio rurale sardo –dice–. Un grande impulso me l’ha dato Don Giovanni Dore, l’ideatore del Museo della musica popolare di Tadasuni”. Ma Peppe ha anche un altro tratto. Particolare. ”Prima col gruppo folk di Guasila e ora con quello di Quartu Sant’Elena vado per il mondo, ospite dei festival internazionali del folclore. Sono stato in Argentina, Brasile, Messico, Grecia, Romania, Belgio, Germania, Svizzera, Austria, Spagna, Polonia, Stati Uniti”.
Pure lì la sua voglia di collezionare è spuntata fuori, tanto che da ogni viaggio Peppe porta qualcosa da sistemare nelle bacheche. C’è una parte della mansarda, che lui simpaticamente chiama ”il bar” per le infinite quantità di vini e di liquori che vi sono conservati, che è una vera e propria Wunderkammer. Una stanza delle meraviglie con oggetti curiosi da tutte le parti del pianeta e un milione di fotografie sugli incontri tra la gente di Sardegna e i popoli delle altre terre, in amicizia. E poi canta a sa trallallera, Peppe, e legge i poeti sardi, il mitico Bore Poddighe in primis, ch’era suo paesano.
Vorrebbe che i tesori isolani venissero valorizzati meglio: ”Se i nuraghi ce li avesse la Francia, altro che!”, sbotta. E intanto che fa la filosofia dello spuntino a base di pecora e vino nero, anima della socialità extralavorativa di casa nostra, attende che l’amministrazione comunale si svegli. Perché sarebbe davvero bello che la sua raccolta potesse essere un punto di riferimento a Dualchi e nel Marghine, base di partenza per la riscoperta di un mondo troppo intenso per essere dimenticato.