Il Circolo di riferimento per i sardi emigrati in provincia di Modena, costituito nel 1979,  ha sede dal 1980 a Fiorano Modenese all’interno della splendida ottocentesca Villa Cuoghi ma i collegamenti consolidati a livello amministrativo  dall’attuale presidente Mario Ledda e dal suo predecessore Giulio Cesare Pittalis (che è stato anche consultore e che continua a essere componente dell’Esecutivo nazionale della FASI)  con il vicino Comune di Maranello  hanno portato e portano alla realizzazione di importanti iniziative culturali dell’associazione sarda presso strutture della “città di Enzo Ferrari e della Ferrari”, come si può definire  Maranello con un’espressione che gli italiani e molti stranieri comprendono senza difficoltà.

 

Così è avvenuto nella mattinata di sabato 24 novembre 2012 per l’incontro di studio che – promosso e realizzato dal Circolo “Nuraghe” di Fiorano Modenese in collaborazione con l’Assessorato alla Pubblica Istruzione, Beni Culturali, Informazione, Spettacolo e Sport  della Regione Autonoma della Sardegna  e con la Federazione delle Associazioni Sarde in Italia (FASI)  ai sensi della Legge regionale sarda  del 15 ottobre 1997, n. 26 “ Promozione  e valorizzazione della cultura e  della lingua sarda” – si è tenuto presso l’Auditorium “Enzo Ferrari” di Maranello sul tema “Sardo, catalano, ladino: esperienze a confronto. Produzione editoriale e letteratura in contesto bilingue”.

 

Dopo i saluti del presidente Mario Ledda, del sindaco di Maranello Lucia Bursi, del vice sindaco e assessore alle politiche educative e scolastiche di Fiorano Modenese Maria Paola Bonilauri, dopo la lettura dei messaggi inviati dall’Assessore della Regione Sardegna Sergio Milia e dalla presidente della FASI Serafina Mascia (entrambi impossibilitati a partecipare), il coro “Città di Ozieri”, diretto da Mario Coloru, ha proposto una suggestiva canzone-poesia in limba del proprio repertorio dedicata agli emigrati, creando così la giusta atmosfera non solo culturale ma anche emozionale prima del dibattito linguistico in programma.

 

Simone Pisano, linguista presso l’Università di Sassari, ha introdotto  i temi oggetto della discussione, dando gli elementi per una distinzione, che è solo sociolinguistica, fra lingua (varietà standardizzata) e dialetto (strumento comunicativo per la socializzazione primaria, quindi in famiglia, nel rapporto con i compaesani); soffermandosi sulla grande diffusione in Italia delle lingue minoritarie; sulla forte tradizione letteraria del catalano, sui molti documenti (non letterari) che testimoniano in Sardegna l’uso sin dal medioevo del volgare locale derivante dal latino parlato; sui territori  (province di Trento e Belluno) in cui  è parlato il ladino.

 

Il barcellonese professor Joan Armanguè, docente ricercatore presso l’Università di Cagliari, ha sinteticamente ripercorso la storia della lingua catalana (antica ma documentata dopo il sardo). Ha ricordato come i più antichi poeti catalani abbiano  imparato la “lingua gemella” del provenzale/occitanico per utilizzarla nelle loro composizioni in versi.

 

Armanguè ha favorito la conoscenza approfondita della vita e dell’opera eccezionale di Raimondo Lullo (Ramon Llull, Palma di Maiorca, 1235 – 1316), cioè del “padre” della lingua catalana: è lui che ha letteralmente “creato” la lingua catalana, partendo dalle glosse in volgare scritte ai margini dei contratti allo scopo  di spiegare al popolino l’implicazione delle diverse clausole. Grazie alle opere di questa mente enciclopedica (fu filosofo, scrittore, teologo, logico, mistico e missionario spagnolo di lingua e cultura catalana – ma scrisse anche in arabo e in latino –, tra i più celebri dell’Europa del tempo) il catalano in prosa conobbe, in epoca medievale, un grande splendore letterario.

 

Dopo essere stato lingua ufficiale della cancelleria di Aragona e lingua di cultura della corte, con l’avvento della dinastia asburgica al trono di Spagna, nella prima metà del Cinquecento, il catalano conobbe un periodo di decadenza che durò circa tre secoli.  Con i decreti di Nueva Planta (1707-1716) Filippo V introdusse il castigliano come unica lingua dell’amministrazione, dell’insegnamento e dei tribunali nei paesi di lingua catalana, relegando così quest’ultima al livello di dialetto. Il catalano insomma – ha detto Armanguè –  fu oggetto di repressione linguistica (ridotto quindi a “lingua minorizzata”) a vantaggio del dominante castigliano. E la sua “rinascita” come lingua letteraria avvenne solo agli inizi dell’Ottocento a seguito delle istanze propagate dal romanticismo sulla necessità di recuperare le lingue medievali.

 

Durante la dittatura franchista l’uso del catalano tornò ad essere proibito al di fuori di àmbiti strettamente privati. Dal 1979, esso è riconosciuto come lingua all’interno della comunità autonoma della Catalogna e ne viene promosso l’utilizzo ufficiale e l’insegnamento presso le scuole. Oggi  è parlato da oltre 9 milioni di persone.

 

Fabio Chiocchetti, segretario dell’Istitut Culturale Ladin “Majon di Fascegn” (Val di Fassa, Trentino; una delle strutture culturali che operano a sostegno della comunità ladina, minoranza linguistica situata nel cuore delle Dolomiti) ha illustrato le caratteristiche linguistiche del ladino (che ha una posizione autonoma nel quadro delle lingue romanze, o neo-latine), parlato da una comunità stanziata in cinque vallate (Gardena, Badia, Fassa, Livinallongo e Ampezzo) che si dipartono dal massiccio del Sella, nelle Dolomiti.

 

Pur nella loro diversità, gli idiomi di queste cinque vallate rappresentano varietà locali di una stessa lingua. Il ladino dolomitico (o ladino centrale; circa 30000 parlanti) costituisce la porzione centrale di un sistema linguistico più vasto che comprende altresì la parte del Canton Grigioni (Svizzera) dove si parla il romancio (o ladino occidentale: circa 40000 parlanti), e la regione Friuli, con il friulano (o ladino orientale: oltre 700000 parlanti).  L’ordinamento della Regione Autonoma Trentino – Alto Adige tutela i Ladini come terzo gruppo linguistico, accanto al gruppo linguistico tedesco e a quello italiano, mentre anche la legislazione nazionale annovera la comunità ladina tra le minoranze linguistiche riconosciute secondo i princìpi stabiliti dall’art. 3 della Costituzione italiana (si consideri che il fascismo represse non solo l’uso del ladino ma volle anche italianizzare i nomi dei morti!).

 

La produzione poetica in ladino cominciò ad essere apprezzata grazie alla raccolta di liriche – con tematiche slegate dalla dimensione locale e con traduzione italiana a fronte – procurata dal glottologo Walter Belardi (Roma 1923 –2008): “Antologia della lirica ladina dolomitica” (Roma, Bonacci, 1985). La prosa d’arte in ladino oggi è poco frequentata (solo novelle o racconti brevi) ma l’uso del ladino vive non solo nell’oralità, nella comunicazione radio/tv  ma anche nella stampa scritta.

 

Maurizio Virdis, docente di Filologia Romanza e Linguistica Sarda nell’Università di Cagliari, dopo aver ricordato che la letteratura sarda sia pure in maniera marginale comincia nel XVI secolo  con Gerolamo Araolla, ha messo in evidenza il dilemma in cui si trovava l’intellettuale sardo nei secoli della  dominanza della lingua degli stranieri conquistatori:  prima il catalano, poi il castigliano, poi l’italiano.  Scrivere in sardo e anche oppure solo nella lingua dominante? Una doppia fedeltà (che espone naturalmente all’oscillazione fra due poli) si ritrova anche nell’illusione di poter collaborare al Risorgimento, alla costruzione dell’Italia unita,  e allo stesso tempo mantenere la tradizione culturale e linguistica autoctona.

 

Con i Falsi d’Arborea  alcuni falsari geniali ingannarono molti intellettuali dell’epoca, compreso Giovanni Spano, solleticandoli con una documentazione (falsa!) che la letteratura sarda era nata addirittura prima di Dante! Il successo di queste loro falsificazioni conferma che avevano capito cosa interessava agli intellettuali sardi: volevano essere contemporaneamente italiani e sardi!

 

Con l’unificazione era giocoforza rinunciare all’illusione che il sardo potesse essere considerato la lingua di una nazione, ma bisognava comunque affrontare la questione della diglossia ossia la  forma di bilinguismo che consiste nell’uso alternato di due lingue (in questo caso: italiano e sardo), di diverso prestigio socioculturale, a seconda dei contesti e delle situazioni.

 

In Sardegna è il poeta Peppino Mereu che inaugura in sardo uno stile letterario alto e aulico che si differenzia dalla lingua comune. Mereu così come i due poeti Montanaru (Antioco Casula) e Antonio Mura (figlio del più noto Pedru) capiscono che bisogna fare i conti con l’italiano: gli innesti  di parole del lessico italiano nelle  composizioni in lingua sarda  hanno lo scopo di nobilitarla.

 

Man mano la situazione sociolinguistica si caratterizza per questa dissociazione: mentre si potenzia il valore riconosciuto alla lingua sarda, sempre meno numerosi sono quelli che parlano il sardo.

 

Se si vuole evitare che al sardo càpiti come all’irlandese (molti lo amano ma pochi lo parlano), per Virdis bisogna mettere mano a una politica linguistica che parta dal basso, per cui la lingua non sia un ghetto per linguisti ma diventi uno strumento per l’autoaffermazione di sé.

 

La lingua sarda deve vivere come respiriamo l’aria o come beviamo l’acqua: solo se manca l’una o l’altra ci rendiamo conto dell’indispensabilità dell’una o dell’altra.

 

Nella parte finale della sua relazione Virdis ha ricordato il fatto che diversi scrittori sardi oggi noti a livello nazionale (Sergio Atzeni, Salvatore Niffoi, Marcello Fois) hanno inserito forti dosi di sardità nell’italiano ma soprattutto ha citato i meritori iniziatori della narrativa in lingua sarda (il canone è rappresentato da “Pro cantu Biddanoa” di Benvenuto Lobina), purtroppo ignorati dai media isolani.

 

Al termine delle relazioni e dopo un breve dibattito la chiusura in bellezza della manifestazione è stata suggellata dai canti in sardo del Coro “Città di Ozieri”.