3 Mariano ToreUomini e cacciatori di Sardegna. Caccia come fonte di sostentamento, caccia come passione. A Thiesi, in occasione dei festeggiamenti in onore della Madonna di Seunis, è stata allestita una mostra sull’attività venatoria nell’isola, dall’unità d’Italia ai giorni nostri. In esposizione fotografie d’epoca, quadri e poesie. A  me è toccato parlare di caccia dal punto di vista gastronomico, con la raccolta di  ricette storiche, tradizionali e innovative.

 

I nostri antenati traevano dalla caccia fonte di nutrimento. Storicamente questa attività ha acquisito significati diversi. Con la suddivisione  della società  in classi, la caccia era riservata esclusivamente alle classi nobili. A partire dal Medioevo e nei secoli successivi, la cacciagione era considerata cibo prezioso, riservato solo a “su segnore”. In tempi più vicini a noi, l’attività venatoria  non è più un’esclusivo passatempo aristocratico ma è diventata un fenomeno di massa: oggi la battuta di caccia rappresenta spesso l’occasione per una scampagnata con gli amici. 

 

Parlare di cucina e selvaggina in riferimento a un’epoca precisa, nel caso della mostra di Thiesi all’Ottocento sardo, non è facile. Le ricette di allora devono essere ricercate nelle pubblicazioni del tempo che in Sardegna non esistono o non sono state ritrovate. Bisogna rifarsi, dunque,  alla fonte più autorevole dell’epoca e precisamente a Pellegrino Artusi e al suo “La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene”, volume che fotografa l’Italia gastronomica ottocentesca. In questo importante  lavoro, però, non è citata alcuna ricetta sarda né ci sono riferimenti alla cucina isolana. Dico questo  osservando il libro non solo per le ricette di selvaggina ma nel suo complesso.

Per la cacciagione troviamo: pappardelle con la lepre, piccioni all’inglese, storni in stufa, tordi disossati e cosi via, piatti apparentemente lontanissimi dai modi di cucinare che noi conosciamo. Quindi, anche questo grande studioso, nel raccogliere tutto il materiale gastronomico regionale italiano della sua epoca,  non ci aiuta a ricostruire le ricette che in quel determinato periodo potevano essere considerate “sarde” o conosciute in Sardegna. Ma persa questa importante occasione, allargando l’angolo visuale,  proviamo a ricercare tracce della nostra cucina in un testo  precedente, di un cuoco anonimo al servizio dei Savoia, che lascia un dettagliato ricettario intitolato “Il cuoco piemontese perfezionato a Parigi 1766”. Anche in questo caso la Sardegna è dimenticata, non possiamo identificare i piatti della nostra cucina con le ricette: la lepre alla cittadina, filetti di coniglio in insalata, lepre con rape, ecc...  Non abbiamo notizia di come si cucinava la selvaggina in Sardegna, ma abbiamo la conferma che diverse specie di  questi animali popolavano l’Isola. Francesco Cetti con i suoi libri sugli animali del 1774-77, ci dice che nell’isola abbondavano capre selvatiche, cervi, daini, mufloni, cinghiali, lepri, conigli, merli, tordi, beccacce, pivieri, pernici, tortore, tordi, folaghe e germani.

 

Dobbiamo forse presumere che i sardi non avessero una cucina o una tradizione gastronomica degna di essere documentata? No!

 

È forse, mancata la collaborazione degli intellettuali e dei cultori della buona tavola. In Sardegna  non si trova traccia  neanche dell’arte culinaria che si era sviluppata al servizio della nobiltà che, per millenni, aveva  la sede dei propri affari nel territorio isolano. Da noi perciò è mancata la documentazione storica e la codificazione delle ricette e dei relativi  ricettari.  La nostra cucina inizia a lasciare piccole tracce  solo agli inizi del primo Novecento ma certamente  questo non è il suo  secolo di nascita.

 

È una cucina figlia di diverse contaminazioni, trasmessa per via orale, ancora ricostruibile intervistando e osservando i gesti delle nostre nonne, testimoni e  memoria  di quella cultura. La nostra cucina ha conservato saperi e sapori antichi, a volte preistorici. Le gestualità della  preparazione dei cibi  nella cucina sarda, sono come quei reperti archeologici che si sedimentano, epoca dopo epoca, e che si conservano intatti. Il perpetuarsi di tradizioni ataviche è oltremodo favorito dal fatto stesso di essere isola. Deteniamo un patrimonio storico-culinario dei più ricchi per la capacità di conservarne memoria e pratica,  perfettamente inalterata con radici  antiche e profonde.

 

Per ben centralizzare il tema dobbiamo prima analizzare l’argomento caccia, le sue motivazioni, la sua evoluzione, quali erano gli animali cacciati e cosa ancora era l’oggetto delle battute di caccia.

 

Oggi la caccia della selvaggina riveste un’importanza simbolica mentre per i nostri antenati, fin dalla preistoria, era un mezzo fondamentale di  nutrimento. 

 

L’uomo preistorico per  sopravvivere  praticava la caccia e si alimentava di carne cruda. Con la scoperta del fuoco, il sapore dei cibi cotti  ha aguzzato l’ingegno e ha permesso all’uomo primitivo di sperimentare nuovi metodi di cottura, favorendo un’inconsapevole educazione al gusto. 

 

Le  cotture più conosciute  erano quindi, arrosto,  sotto la cenere, stufato con il grasso  o lesso. Probabilmente è del periodo l’invenzione  del metodo di cottura sotto terra, chiamata in sardo “cotta a carrardzu”,  e “fra due fuochi”, brace sopra e sotto la pentola dell’alimento da cuocere (sufogadu).

 

 Alcuni viaggiatori, del XVIII e  XIX secolo, nei loro reportage, descrivono  tecniche  di preparazione e cottura di animali come quella che in  epoca classica veniva denominata delporco troiano (Porcus Troianus)”.  Si partiva da un’oliva che riempiva un passerotto, che a sua volta riempiva un piccione e così via, fino a riempire un grosso maiale. Proprio come in Sardegna si usava fare farcendo un animale più grosso con uno più piccolo. 

 

 Con lo sviluppo delle società organizzate e ben strutturate,  si  configura anche,  una netta suddivisione in classi sociali.  La caccia non è più il metodo per eccellenza per procacciarsi il cibo, ma diventa un goliardico passatempo per i nobili.

 

Il tempo macina tempo e con il suo evolversi porta con sé cambiamenti e livellamenti e quello che era per pochi diventa di tutti e anche la selvaggina, da cibo esotico, diventa prelibata tradizione.   

 

Ma come siamo giunti a concepire le ricette che oggi chiamiamo “tradizionali”? La storia ci ha lasciato tracce e metodi che noi abbiamo adattato e trasformato secondo la cucina di ogni tempo.

 

La tradizione culinaria della Sardegna è figlia della nostra storia che ha percorso i suoi itinerari e condizionamenti fino a giungere a quella che adesso riconosciamo come nostra e, sbagliando, solo nostra.

 

Nelle nostre case si perpetuano metodi e modi di cucinare la selvaggina che hanno la ricchezza e il fascino delle preparazioni culinarie del mondo antico, grazie a quella modalità di tradizione orale che è quella di tramandare il sapere da madre in figlia.

 

Ecco una ricetta tradizionale: 

 

Ghisadu o casciola de craba areste  a sa moda de tiu Bustianu – spezzattino di capra selvatica

 

Una coscia di capra, 100 g di lardo, tre cucchiai d’olio extravergine di oliva, una cipolla, rametto di timo, due spicchi d’aglio in camicia, una foglia di alloro, bicchiere di aceto casalingo, tre bicchieri di vino rosso cannonau, sale.

 

 In una capace padella ovale versate l’olio e fate sciogliere il lardo tagliato a dadini. Unitevi la coscia della capra intera e fatela rosolare per bene in ogni sua parte. Aggiungete la cipolla tritata e fate stufare leggermente a fuoco leggero. Quindi salate, bagnate con l’aceto, il vino e aggiungete le erbe aromatiche. Incoperchiate la padella e fate cuocere la carne a pentola coperta per circa due ore a fuoco moderato. Appena cotta servitela con il suo sughetto di cottura concentrato.

 

 

Io sono rispettoso dei metodi tradizionali ma non mi dispiace darne anche una interpretazione personale:

 

Lepre in polenta

 

1 lepre pulita, 200 g di semola grossa, mezzo bicchiere di olio extravergine di oliva, 3  bicchieri di cannonau, due carote, un gambo di sedano, aglio, cipolla, sale e pepe

 

Tagliate la lepre a pezzi e fatela rosolare in padella con olio, cipolla, carota e sedano  tritati. Appena ben dorata bagnate con il vino, salate leggermente,  coprite la padella e portatela a cottura. Qualora il liquido non fosse sufficiente aggiungete qualche mestolo di brodo o acqua. A parte portate un litro di acqua a bollore e salate leggermente. Versateci a pioggia la semola e mescolate con la frusta per non fare grumi. Abbassate il fuoco e continuate la cottura per 40 minuti, mescolando di tanto in tanto. Versate la polenta sui piatti individuali, conditela con la lepre al cannonau e servite.

 

E per finire non potevo non segnalarvi una ricetta antica illustrata da Archestrato da Gela, che operò nella seconda metà del quarto secolo a.C.: “Sono molti i  modi e i precetti per preparare una lepre, ma eccellente è mettere la lepre arrosto calda, condita di solo sale, in mezzo a commensali di buon appetito, con la carne ancora un po’ crudetta, strappata a forza, dove vedi stillare il sangue, e che viene mangiata avidamente. Inopportune ed esagerate sono le altre preparazioni fatte con molto formaggio, olio o altro untume”.