128C’era uno, tanti anni fa, che svegliandosi aveva dovuto fare i conti col proprio naso. Era Vitangelo Moscarda: protagonista del pirandelliano Uno, nessuno e centomila. Il naso: scusa per spiegare la molteplicità dell’uomo, l’infinito gioco dei punti di vista… Esistono per caso una parola, una frase, un discorso che siano univoci? O non è che le parole, gli sguardi, i suoni e quindi la musica rechino in sé uno, nessuno e centomila significati? Risposta ardua, di certo c’è nell’Isola una splendida band che tutti i giorni fa i conti col proprio naso. Che non è proprio un punto fisso, una rocca alla quale aggrapparsi. È più una boa. Un naso sfuggente, sfuocato, ballerino: un Nasodoble. Ce lo siamo fatti raccontare dal suo cantante, e flautista, nonché autore dei testi: Alessandro Carta.

 

– Che significa Nasodoble?

 

Il nome, come la musica che facciamo, è un gioco profondo e surreale. Viene un po’ da pasodoble e si riferisce al nostro doppio, che spazia da Antonin Artaud a s’imbriachera. Viaggia nella complessità della musica, nel suo senso voodoo, non lineare. Non mi basta dare un senso alle cose che scrivo, almeno due me li concedo. Per rispetto verso il pubblico. La nostra non è una musica di massa: pesca dentro ognuno.

 

Quando e come nasce il gruppo?

 

Il progetto è partito sei sette anni fa intorno a un trio. Con me Peppino Anfossi (violino) e Gianfranco Cossu (chitarra), che ora non suona più con noi. Si lavorava attorno a un’idea di disco, poi confluita nel Bestiario, primo lavoro dei Nasodoble. Da trio con un sacco di ospiti, nel novembre 2003 ci siamo trasformati in band. A me e a Peppino si sono aggiunti: Andrea Fanciulli (chitarre), Simone Sassu (piano), Alessandro Zolo (bassi) e Carlo Sezzi (batteria). I Nasodoble si stringono attorno a un progetto sonoro e poetico – che ha dentro jazz, reggae, rock e pop mescolati nel caratteristico gusto acustico presente sin dagli esordi dei ‘nasi’ – per dare il massimo, far ridere e piangere, ragliando e guardando la luna.

 

Ci racconti il Bestiario?

 

È un disco del 2005. Un catalogo medievaleggiante di animali umani. Siamo andati a frugare dentro il senso infantile e civile delle cose, mettendo in campo filastrocche e scioglilingua. Riferimenti letterari sono la lezione di semplicità dell’immaginario di Calvino e certe capriole di Palazzeschi e Rodari…

 

Cosa caratterizza la vostra musica?

 

La leggerezza è forse la parola chiave del nostro modo di scrivere e stare sul palco. La ricerca della leggerezza nella profondità. E anche il contrario ovviamente. Siamo persone che hanno fatto una scelta seria di vita, anche nel senso della visione delle cose. Gente che suona da anni e fa tanti progetti: chi fa jazz con Fresu, chi rock, chi musica irlandese, siamo molto eterogenei ma uniti – e rapiti – da questa chiave di lettura.

 

– Il vostro punto forte – specie per i costumi di scena: gonne, sughero bruciato sul viso, mastruche… e per il grande impatto sonoro – è il live…

 

I costumi dànno un senso spettacolare alla nostra poesia. Per generare magia e visioni, per volare e far volare il pubblico devi dare un ritmo scenico alle cose. Altrimenti non succede nulla. Noi portiamo sul palco una Bosa vista con gli occhi dell’infanzia: da tempo siamo legati a questa città e alla sua meravigliosa proloco, che non ha mai ceduto alla tentazione di fare la ‘sfilata’. Il martedì grasso il popolo scende in strada a urlare e a ragliare, non a sfilare. Questa è la nostra ispirazione da dieci anni. Perché noi facciamo ‘musica mula’: vogliamo essere incrociati e rifiutiamo qualsiasi senso di purezza. Quella purezza che è un dramma. Amiamo il senso del bello e del brutto: quando vogliamo urlare urliamo, quando vogliamo piangere piangiamo. Ogni volta è una magia diversa. E il pubblico lo capisce: al nostro concerto di Pisa tutti si facevano colorare la faccia di nero. È stato meraviglioso: si sentiva l’energia. Se il pubblico si fa portare e hai voglia di portarlo succedono cose salutari…

 

Che pensi del panorama sardo della musica indipendente?

 

C’è un livello altissimo sia nel lato musicale che progettuale. Ma l’Isola non è una repubblica indipendente. Non dico in senso politico, quanto a livello di ‘mercato’. E il mercato di riferimento, quello italiano, è un disastro. In continente si suona gratis e nei locali importanti si paga pure: c’è la fila. E la qualità va giù. Da noi è raro sentire volgarità tipo: “Ti diamo la possibilità di farti conoscere e vuoi anche soldi?” e magari è un bar. Nei circuiti commerciali però è la regola. In Sardegna c’è rispetto per i musicisti, e i musicisti rispondono con un alto livello progettuale. Ma il mercato sardo è limitato e spostarsi significa spendere tanto. Il continente è in mano a due radio che gestiscono tutto. Il resto è il girone dei dannati. In Italia c’è gente che fa rock da leccapiedi e va nei salotti. È paradossale. Il gusto è indotto e le etichette indipendenti lo rincorrono. Ci è capitato di avere richieste di etichette che proponevano un contratto, investendo su di noi 5 mila euro. Ti fanno fare il disco e sei tu che glielo devi comprare. È un circo.

 

Cos’è questo Bette Consorzio (già Quintomoro Concerti) di cui fate parte?

 

Al bel momento musicale della Sardegna non corrisponde altrettanta visibilità per gli artisti. Ferma restando la fratellanza, la comunanza di ideali coi gruppi che ne fanno parte, in prima linea i Figli di Iubal e la Marchin’ Band, il Bette Consorzio è una struttura professionale che si occupa del lato burocratico, contrattuale, promozionale e progettuale, di cui gruppi non possono fare a meno. L’idea è allargarsi ad altri gruppi, per proporre un ‘pacchetto’ in grado di riempire un paese di musica: abbiamo già fatto esperimenti molto positivi …

 

– A che state lavorando?

 

A un nuovo disco, che per ora non facciamo uscire – anche se i brani ci sono – perché stiamo studiando il sound. Abbiamo inciso Primo pianto, singolo uscito nella compilation Fuori Sessione (sedici band sarde e quattro continentali, tra cui Bandabardò e Yo-Yo Mundi, per venti inediti a favore di Emergency, Tajrà 2008, ndr). Il brano è molto elettronico e gioca sul doppio e triplo salto mortale dei versi. Il nuovo disco sarà così: ancora una volta infantile e civile. La voglia è quella di fornire i mezzi per accogliere le cose. Scrivere e suonare hanno questo senso: dànno la possibilità di essere accolti. E dato che le parole non sono univoche, ma hanno ma due, tre, infiniti sensi, ciò che diciamo è rivolto davvero al singolo. E ognuno ci potrà interpretare e accogliere a suo modo.