marrasÈ in forma il cinghiale del canto, il Piero nazionale. Si, insomma, Marras. Il barbuto menestrello di ginepro in forma di poeta. O forse meglio il sardo dal cuore gigante che sprizza melodia, che zappa la terra del ricordo e dell’avvenire, che anninna, fa ballare, sospirare e riflettere, che gioca, ammonisce, rincuora, innova. Ormai pronto alla tournée estiva, l’artista è appena venuto fuori col suo Dvd antologico. ”Piero Marras”, due ore intense di musica con tanto live e contenuti speciali: il concerto in Vaticano con Dionne Warwick, alcuni video degli inizi, una presentazione dei brani fatta al pianoforte del salotto di casa in un magico tête à tête con la telecamera, la traduzione italiana e inglese dei testi.

 

Lei ha iniziato a cantare in italiano, com’è ch’è approdato al sardo?

 

Avevo già fatto tre album e i successi non erano mancati. Eppure ero alla ricerca di un suono che mi appartenesse più visceralmente. L’ho trovato con una sintesi tra limba e sonorità moderne. Fu una scommessa che fece arricciare il naso ai discografici. Ma era riduttivo non raccontare questo universo con la sua lingua: posso aver perso una fascia di pubblico, certo ne ho acquistato un’altra. E poi, io stesso possiedo questi due codici espressivi, che in musica diventano due diverse suggestioni. È stato naturale usarli entrambi.

 

Girando l’Isola in lungo e in largo faccia a faccia con la sua gente: cos’ha maturato in questi anni di palco in palco?

 

Premetto che è molto più semplice fare i concerti con una platea che per vederti paga un biglietto. Nelle piazze invece ci sono tutti e devi cercare di prenderli tutti. Non puoi barare: questa è la ”regola”, la cosa più importante che ho imparato. Se tu dài qualcosa si crea un rapporto di correttezza tra te e il pubblico e la gente continua a stimarti. Devi regalare il meglio, affrontare ogni situazione senza risparmiarti, reinventarti come fosse la prima volta che canti. Capisci che è andata bene quando stai due ore e mezza sul palco e non te ne accorgi nemmeno.

 

Riassuma in poche parole la sua missione di cantante, quali messaggi ha cercato di mandare?

 

Ho sempre cercato di raccontare una Sardegna che non si chiude in se stessa ma che dimostra una capacità imprenditoriale, nel mio caso dell’anima, convinta di ciò che fa. Il mio è un messaggio di fiducia per i Sardi e nei Sardi: vivendo in un’isola è possibile trovare un’ottima dimensione umana, e non è vero che le cose qui arrivano soltanto, le sappiamo pure far partire.

 

Qual è la sua posizione rispetto alla lingua sarda?

 

Sono dell’idea di costruire un sardo comune, senza campanilismi. Mi va bene l’unificazione, basta si faccia qualcosa e subito. Poi ci si aggiusterà in corsa. Facciamo entrare questa lingua nelle scuole, organizziamo campus dove si parla solo in sardo, così come si fa per l’inglese. I mezzi sono tanti…
 

Esiste una contrapposizione tra l’essere sardo e l’essere italiano?

 

Una contrapposizione c’è sempre stata e non l’abbiamo voluta noi. Ti si è imposto un mondo che non tiene presente il tuo. Quando la cultura ufficiale emargina ciò che sei non puoi essere d’accordo, c’è un’ingiustizia e devi ribellarti.

 

Vorrebbe l’indipendenza?

 

L’indipendenza non dev’essere uno slogan, è l’obbiettivo finale, ma bisogna essere si curi di quello a cui si va incontro. Dobbiamo costruire le basi per la sussistenza quotidiana, crearne le premesse politiche. Oggi i movimenti nazionalisti beccano le briciole, non hanno ancora capacità di convincere. Una cosa è quando si ha l’appoggio di tutti, ma quando la divisione è così grande… Resto un autonomista convinto e penso all’indipendenza come a un obbiettivo cosciente, accattivante. Ma voglio che ci sia una vita decente, un lavoro per ognuno. Altrimenti l’indipendenza diventa paura di isolamento e la gente eviterà sempre di prenderla in considerazione.

 

Esiste ancora il binomio isola-isolamento?

 

La rivoluzione di internet ha abbattuto il muro che ci separa dal mondo, seppure per accedere fisicamente alle altre terre devi prendere un aereo o una nave. Dipende da come sapremo usare gli strumenti in nostro possesso. C’è ancora un isolamento personale da buttare giù: lo vediamo nella mancanza di cooperazione, nelle chiudende e nei muretti che costruiamo tra noi e il prossimo. L’isolamento in questo senso ce l’abbiamo dentro. E di sicuro gran parte delle barriere sono fatte d’invidia.

 

Cos’è l’identità?

 

Qualcosa che si è e non qualcosa che si ha. Ognuno deve testimoniarla con quello che fa, con la sua condotta di vita, con la sua ”balentia” positiva, col suo atteggiamento di fede a una causa e a un popolo.

 

Cosa le piace della Sardegna e dei Sardi?

 

È come dire cosa amo e odio in me stesso. Mi piace l’essere meticolosi e seri, coriacei, rocce testarde che non si accontentano della superficialità dei risultati. Di sicuro non amo il vittimismo, né chi pensa che il mondo inizi e finisca in su bichinadu.

 

Ma lei che tipo è?

 

Uno che prova un immenso piacere nell’accompagnare sua figlia a scuola. Uno che si sveglia presto e che presto va a dormire. Le ore piccole le vivo durante i concerti. Mi piace la famiglia, la natura, la campagna e il mare, adoro gli animali, giocare a pallone, bere vino, guardare un film…

 

E il mangiare?

 

Diciamo che a tavola sto bene. Solo che a volte mi dimentico di alzarmi. Ma ora mi sto disciplinando.

 

Cosa la emoziona?

 

Sono un romantico, mi emoziona quello che è fatto con sensibilità e dedizione. In special modo l’arte, dalla pittura alla scultura, dalla poesia al canto. Consiglierei a chiunque di dedicare almeno mezz’ora al giorno alla lettura, in silenzio con se stessi. Per dirne una ultimamente ho gradito molto il libro di Sergio Frau, tanto che vorrei cantarci sopra, interpretarlo. È stato un’iniezione di autostima, quello di cui abbiamo bisogno. Quest’Isola vorrei davvero fosse felice come Atlantide: è il mio sogno.

 

È vero che ha un augurio speciale per i Sardi?

 

Come no? A los bider semper sanos, e semper Sardos…