ballo a tre passiLa moralità dietro la cinepresa, la capacità di dare voce ai sentimenti, il coraggio di abbandonare la prosa per tuffarsi nella poesia. Tutto questo è Ballo a Tre Passi, il film di Salvatore Mereu vincitore alla 18ª Settimana della Critica del Festival di Venezia.

Per la prima volta un lungometraggio pensato e realizzato quasi interamente in Sardegna trionfa nella prestigiosa rassegna lagunare. Un riconoscimento importante per un lavoro di respiro internazionale, lontano anni luce dagli schemi e dai luoghi comuni che hanno caratterizzato a lungo le produzioni isolane.

 

Unanime il giudizio della giuria veneziana (Ferzan Ozpetek, Eva Zaoralova e Valeria Golino): Ballo a Tre Passi si è guadagnato il primo premio “per la forza con cui il regista rappresenta diverse condizioni esistenziali, riuscendo a dare valore globale ad una realtà locale”. Racconta il tuo villaggio e sarai universale, diceva Tolstoj: una raccomandazione che Salvatore Mereu ha fatto sua. Volti e personaggi presenti nel suo film sono l’espressione di una Sardegna autentica, raccontata senza concessioni al folklore.

 

Ballo a Tre Passi è un viaggio esistenziale diviso in quattro episodi: i bambini che scoprono il mare, l’iniziazione erotica del pastore Michele, il ritorno a casa di una monaca di clausura per partecipare al matrimonio della nipote, l’incontro particolare di un pensionato con una prostituta. Quattro storie tenute insieme da un filo unitario, con i personaggi che vanno e vengono nei diversi segmenti narrativi.

 

Mereu gioca con le contrapposizioni: vita e morte, allegria e tristezza, mare e montagna, solitudine e festa, isolamento e modernità. Il fine ultimo è quello di indurre lo spettatore ad una partecipazione attiva, anche a costo di provocarlo.

Ballo a Tre Passi, dopo i giudizi lusinghieri della critica, è stato accolto favorevolmente anche dal pubblico. La pellicola è presente in 24 copie nelle sale cinematografiche di tutta Italia, caso unico per una produzione sarda.

 

 

Dopo il trionfo a Venezia è arrivato il successo nelle sale. Anche il pubblico, dopo i critici, ti ha promosso a pieni voti.

Per me la soddisfazione è doppia visto che Ballo a Tre Passi tiene poco conto delle esigenze dello spettatore medio. Fare un film recitato in sardo, con i sottotitoli, in un momento in cui si vanno a vedere solo film americani e con attori noti, poteva sembrare una follia. A Venezia, invece, mi sono reso conto che il pubblico avrebbe gradito.

 

Che cosa piace del tuo film?

 

Credo che lo spettatore apprezzi la volontà di mettersi in gioco, di raccontarsi con assoluta immediatezza, persino sconfinando nel privato, lasciando da parte ogni calcolo o furbizia narrativa. I francesi ai tempi della nouvelle vague dicevano che le inquadrature sono una questione morale: non si possono girare scene senza sentire la responsabilità di quello che si rappresenta. Questo precetto assume una valenza ancora più forte quando un regista o un artista è chiamato a rappresentare la sua gente. Credo che questa consapevolezza accomuni tutte le produzioni cinematografiche sarde degli ultimi anni.

Un critico autorevole come Antioco Floris parla di ”Nuovo Cinema in Sardegna” per fotografare la novità rappresentata dagli ultimi film prodotti nella nostra isola, lavori che segnano una rottura con il passato.

 

Antioco ha colto nel segno. E’ cominciata davvero una nuova stagione, nel cinema sta avvenendo quello che è capitato nella letteratura e prima ancora nella musica, basti pensare all’importanza assunta da jazzisti come Paolo Fresu in campo internazionale. Non è un caso che critici importanti comincino ad occuparsi della produzione cinematografica in Sardegna o che rassegne prestigiose come ”Bimbi belli” di Nanni Moretti selezionino tre film sardi. La speranza è che non si tratti di un fenomeno effimero.

 

Il rischio qual è?

 

Che si torni al passato. La Sardegna per troppo tempo è stata raccontata in due modi: come luogo di omicidi e vendette, sequestri di persona e furti di bestiame, con versioni western assemblate da registi che consideravano la Sardegna una terra di frontiera; oppure come semplice quinta scenografica da autori che erano interessati solo alla ”buccia” costiera della nostra isola per ambientazioni balneari. Nessuno, a parte De Seta con Banditi a Orgosolo e i fratelli Taviani con Padre e Padrone, si era mai preoccupato di raccontarla dall’interno. C’era l’esigenza di vedere film in cui riconoscersi, anche per rendere giustizia alla nostra terra, alla cultura e all’identità del nostro popolo. La novità di Ballo a tre Passi è che per la prima volta in un lungometraggio ambientato in Sardegna non si parla di banditi.

 

Un’altra novità di questo film è rappresentata dalla lingua sarda utilizzata in modo naturale, permettendo ai vari personaggi di esprimersi nella parlata del proprio paese. Non hai mai avuto la tentazione di doppiare gli attori?

 

No, ho utilizzato il sardo anche in alcune parti dei miei cortometraggi. Non ho mai pensato che la lingua potesse rappresentare un impedimento. Il cinema, d’altra parte, parla prima di tutto per immagini. Il pubblico ormai è maturo per recepire qualsiasi messaggio. Certo ci vuole un grado di motivazione in più per vedere questo tipo di film: occorre abbandonare l’atteggiamento passivo di chi sta davanti alla Tv.

Goffredo Fofi presentando il tuo film a Venezia ha scritto proprio questo: Ballo a Tre passi è un film che rende lo spettatore attivo e non bersaglio di un meccanismo narrativo.

 

E’ stata una cosa che mi ha fatto molto piacere, soprattutto perché scritta da un critico che io apprezzo moltissimo. Il mio obiettivo era realizzare un lavoro diverso, un film che ti lavora dentro e che non si dimentica facilmente.

Tu ami citare Tolstoj: il grande scrittore russo è un riferimento importante in tutta la tua attività professionale?

Io racconto quello che conosco. Nel cinema non si può barare, gli spettatori non ti consentono di bluffare. Tolstoj aveva ragione: si possono raccontare storie minori e renderle universali. Per questo amo Kurosawa.

 

Hai citato un mostro sacro del cinema. Nel tuo film ci sono riferimenti anche a Fellini, Kusturica, Kiarostami, Truffaut e altri giganti della settima arte.

Quando inizi a lavorare nel cinema lo fai da neofita. L’atteggiamento è quello di chi deve imparare una lingua nuova. Devi guardare a dei modelli e fai riferimento a quelli più alti. Il procedimento è inconscio. Una volta finito il lavoro scopri che dentro ci sono richiami agli autori che hai amato. Credo che sia così per tutti gli artisti. L’importante è che non siano citazioni gratuite.

 

Tu hai scelto di utilizzare nel film attori non professionisti, a parte Caroline Ducey e Yael Abecassis. Perché?

 

Era una scelta obbligata per rendere credibile la storia, per dare verità ai personaggi, altrimenti si rischiava di rendere tutto finto. Se tu noti, i volti degli attori sono assolutamente adatti ai ruoli. C’è stato un grande lavoro di casting effettuato in modo atipico: non mi sono rivolto ad agenzie specializzate ma sono andato a cercare i miei personaggi nelle feste di paese o partendo in qualche caso da persone che già conoscevo. Poi nel film gli attori si sono perfettamente integrati con le due attrici professioniste.

Michele Carboni e Giampaolo Loddo, due interpretazioni straordinarie, molto apprezzate dalla critica.

 

Giampaolo Loddo lo avevo visto nel film Pesi Leggeri di Enrico Pau. Dal primo provino ho capito che era il volto adatto per interpretare la parte del pensionato nell’ultimo episodio del film, aveva i tratti fisici e morali per quel ruolo. Michele Carboni lo conoscevo da tempo: ho costruito la sceneggiatura del secondo episodio su di lui. Nel suo caso non si poteva fare diversamente: solo uno con il suo volto poteva interpretare quel personaggio. Prima di iniziare a girare sono andato a Sedilo, per raccomandarmi a San Costantino. Un atto di vigliaccheria se vogliamo, visto che pur essendo credente non sono un gran frequentatore di chiese e mi sembrava inopportuno invocare l’aiuto di un santo. Al ritorno dal santuario ho incontrato Michele al quale non avevo detto di essere a Sedilo. Ho dovuto confessargli perché ero lì.

 

San Costantino non poteva in ogni caso rifiutare l’aiuto ad un suo fedele guardiano. Michele Carboni, pochi lo sanno, oltre ad essere un bravo attore è anche un esperto cavaliere dell’Ardia. L’abitudine alle grandi folle forse lo ha aiutato a superare la paura davanti alla cinepresa.

 

Sicuramente. Tra tutti gli attori non professionisti era il più disinvolto. La sua interpretazione è piaciuta molto ai critici e al pubblico. A Venezia, dopo la proiezione, molte ragazze si sono avvicinate a chiedergli l’autografo. Lui non si è scomposto, si è limitato a dire: ”se lo racconto in paese non ci crede nessuno”.

 

Torniamo a Venezia. Questo premio che cosa rappresenta?

 

E’ il coronamento di un sogno. Ero già felicissimo di essere stato selezionato per la Settimana della Critica, figurati cosa ha significato per me vincere.

Ballo a Tre Passi è un film “piccolo” che aveva bisogno del traino di un grande festival per guadagnarsi il consenso nelle sale, altrimenti rischiava di rimanere un prodotto di nicchia.

 

Oggi che stai assaporando il successo anche le difficoltà incontrate nella realizzazione del film sembrano dimenticate?

 

Ho rimosso tutto, anche gli episodi più spiacevoli. Gli ostacoli da superare, credimi, sono stati davvero tanti. Sul Monte Corrasi, quando si girava il secondo episodio, ho temuto di dovermi fermare. Portare una troupe romana in quei luoghi selvaggi era già un rischio, se a questo aggiungi la pioggia battente il quadro diventa davvero drammatico. C’è stata una sorta di ammutinamento e mi sono trovato a trasportare le casse in solitudine, con l’unico ausilio di un asino che mi guardava con aria di compassione. Poi per fortuna è rispuntato il sole.

 

Altri momenti di sconforto?

 

A Porto Pino. Quel tratto di mare, come tutti i sardi sanno, è sotto il controllo dell’esercito. D’estate, fino al 15 Settembre, è consentito l’accesso in spiaggia ai bagnanti, avevamo il permesso per girare il primo episodio del film entro quella data. Il brutto tempo ci aveva però impedito di terminare il lavoro e così decidemmo di entrare nella zona militare di nascosto. Nel bel mezzo delle riprese arrivarono i mezzi corazzati: i militari ci sequestrarono i documenti e rischiammo persino l’arresto.

 

La tua vittoria rappresenta oltre che un successo personale anche un riconoscimento per il cinema sardo. Sarà più facile adesso lavorare in Sardegna?

 

Me lo auguro. Finora noi registi ci siamo dovuti arrangiare. Da noi non esiste una legge per il cinema. E’ quasi impossibile trovare i soldi per fare un film. Io ho avuto la fortuna di ottenere un finanziamento dall’Istituto Superiore Regionale Etnografico per il primo episodio. Con quella parte già confezionata mi sono potuto presentare ai produttori con un buon biglietto da visita, poi il finanziamento statale mi ha permesso di terminare il film. Spero che in futuro le cose cambino: in Sardegna ci sono tanti talenti che meritano una chance.

 

Venezia è una grande vetrina internazionale, questa vittoria ti aprirà nuove strade. Stai già pensando al prossimo film?

 

La possibilità di fare un secondo lungometraggio, non lo nego, si è semplificata. Ho ricevuto delle proposte che sto valutando attentamente. Non bisogna però dimenticare che questo è un mestiere difficilissimo. Sono pochi i registi che dal cinema riescono a campare.

Ho delle idee per il futuro, ma non voglio svelarle. Posso dire soltanto che nel mio prossimo lavoro si parlerà ancora di Sardegna perché questa è la terra dove sono nato, dove vivo e dove continuo a sognare.