columbuSorriso a fior di labbra, sobrio, elegante, un Humphrey Bogart versione mediterranea. Si presenta così Giovanni Columbu, l’autore del noto film “Arcipelaghi”, tra i registi cinematografici sardi più apprezzati. Originario di Ollolai, ha vissuto per trent’anni nella metropoli meneghina.

 

Ma in realtà il suo legame con l’Isola non si è mai sciolto. Per tre mesi, ogni anno, rientrava nella sua terra d’origine per rubarne misteri, segreti, luci e ombre. Si laurea in Architettura a metà degli anni ’70, e già da questo periodo il giovane Columbu inizia a cogliere nella società sarda, e in particolare nel mondo rurale, non solo il malessere economico, ma anche un profondo e più intimo malessere di natura esistenziale. Da qui il filo rosso con il quale le sue opere verranno imbastite: la visione interiore nella storia e negli uomini dell’universo Sardegna. Un motivo presente anche nella sua ultima sceneggiatura: una lettura sinottica dei Vangeli, scritta interamente in limba, intitolata Su Re.

 

Giovanni, come hai iniziato a fare cinema?

 

Non c’è un particolare inizio. Ne sono stato sempre appassionato. Grazie al cinema ho fatto ciò che mi è sempre piaciuto per davvero: raccontare delle storie. Credo che se fossi vissuto in altre epoche, quando il cinema non esisteva, avrei comunque fatto un mestiere molto simile.

 

Trent’anni a Milano. La Sardegna arriva per caso?

 

Pur vivendo nella penisola la mia passione e il mio interesse per l’universo sardo non è mai venuto meno. Anzi, le distanze lo hanno acuito, anche perché sostenuto da racconti e da tutta una mitologia favolistica che mi perveniva da mio padre, che non ha mai smesso in tutti quegli anni di parlare di Sardegna. Non sono mai stato un turista in quest’isola. Ho sempre saputo di appartenergli, fin da bambino.

 

Ti laurei in Architettura, con una tesi dal taglio economico-sociale intitolata “Il golpe di Ottana”. Di che si trattava?

 

Con quella tesi, che completai nel ’75, volli studiare le ragioni sociali e culturali per il quale si era voluto fare quella scelta economica nell’entroterra sardo. Incontrai molte resistenze e anche ostilità per le critiche avanzate nella tesi verso quella politica economica. Il modello di sviluppo era basato sull’idea che  tutto ciò che aveva a che fare con l’identità della Sardegna costituisse un retaggio da rimuovere. Perciò per permettere lo sviluppo della regione si dovette intervenire in maniera traumatica. Si volle produrre una frattura netta con il passato. Nientemeno che trasformando le comunità, soprattutto rurali, legate al lavoro e alla cultura della campagna, in comunità improntate su quello che poteva essere il lavoro di una grande industria o di una fabbrica. Nel giro di pochissimo tempo si passò da un modello di sviluppo ad un modello completamente opposto. E io divenni un po’ un nemico del popolo. Oggi per fortuna abbiamo cambiato idea in merito allo sviluppo. Se ieri ci si proponeva di produrre delle fratture con l’ambiente e modificarlo nella sua struttura e nel suo essere sociale, oltre che nei valori e nelle idee delle persone, oggi, si pensa tutto il contrario. L’idea corrente è che si debba agire in armonia. Ma quelle fratture hanno lasciato dei segni e degli strascichi, molto profondi nella società sarda.

 

Un’analisi socio-economica precisa. Cosa ha a che fare l’industrializzazione di Ottana con il Columbu regista?

 

Uno dei primi lavori che ho fatto venendo in Sardegna è Visos. Insieme a dei ragazzi, che divennero ufficialmente dei ”ricercatori di sogni”, andammo per la Sardegna a chiedere alle persone, in particolare a quelle provenienti dal mondo rurale, di raccontarci i loro sogni. I sogni vennero trascritti per poi essere interpretati in un set. Ne venne fuori un lavoro molto interessante e originale. Inoltre con questa esperienza si cambiava il modo di raccontare la Sardegna. Il racconto del mondo rurale è sempre stato legato a dimensioni estremamente materiali e concrete, non alle dimensioni interiori, psicologiche e tanto meno oniriche. Riconoscere al mondo rurale sardo una dimensione interiore significava restituirgli lo statuto che è degli esseri umani e che in una certa misura gli era stato negato, anche attraverso l’operazione che si fece a Ottana in quegli anni.

 

Ciò che ti interessa raccontare sono quindi gli individui più che la storia in senso lato?

 

Ciò che mi ha sempre coinvolto è la dimensione oggettiva, il porsi all’interno della dimensione umana. Spesso il cinema non l’ha fatto. Era più interessato alla storicizzazione che agli uomini. In Sardegna questo aspetto non è mai stato ricercato, neanche attraverso l’etnografia, che ha invece spersonalizzato le persone, rendendole individui astratti. Tutti identici: uomini, donne, bambini, l’unica differenza erano i tratti somatici, ma mai differenze interiori. Così ho voluto iniziare a raccontare la Sardegna tentando di far emergere appieno l’animo degli uomini e restituendo loro la dimensione della dignità umana.

 

Ma per raccontare la dimensione oggettiva ti rifai a correnti artistiche particolari o si tratta di una scelta personale?

 

Il cinema espressionista e surrealista, ma anche la pittura fiamminga, sono le chiavi di lettura che assieme alla passione per questa Terra mi hanno spinto a cercare in Sardegna gli aspetti legati alla dimensione interiore e psicologica che è propria di quelle correnti artistiche.

 

E per raccontare, tu che sei un regista cinematografico, hai usato e usi la cinepresa. Come si fa a raccontare la dimensione interiore dell’uomo con un obiettivo e una pellicola?

 

Il cinema ha uno stranissimo modo di raccontare, perché lo fa attraverso gli sguardi. Sono gli sguardi a raccontare, non il regista. Per riuscirci è molto importante la scelta degli attori, la composizione del cast. Gli attori-interpreti servono a raccontare una storia, ma questi raccontano soprattutto se stessi. Infatti i raccontatori-interpreti danno un rilievo diverso ai racconti, perché investonono in essi tutte le loro esperienze: belle, felici e dolorose. Ognuno di noi ha da raccontare una storia differente: la propria storia.

 

Da ”Arcipelaghi”, film drammatico del 2001 tratto dal romanzo di Maria Giacobbe, alla tua ultima sceneggiatura: ”Su Re”, una grande opera con lettura sinottica dei Vangeli. Entrambe le opere sono in limba. Cosa ti ha spinto a rileggere i Vangeli per poi raccontarli in sardo?

 

La lettura comparata dei testi dei quattro evangelisti è nata per caso. Vidi riportato su una parete di una chiesa romana lo stesso passo scritto dai quattro evangelisti, uno a fianco all’altro. Pur trattandosi della stessa vicenda, mi accorsi che emergeva la personale visione di ogni singolo evangelista. Ma nel contempo le quattro prospettive offrivano una visione d’insieme molto più completa e interessante. Così decisi di raccontare la vita di Gesù attraverso gli occhi di tutti e quattro. Ma nello stesso tempo volevo dare qualcosa in più alla storia del Vangelo. Decisi di rileggere quella grande opera con la sensibilità sarda. Sono convinto che ogni parte del mondo può concorrere alla comprensione delle vicende umane. E questo avviene attraverso il proprio apporto, unico e originale, che altri non possono dare allo stesso modo. La lingua e la cultura sono fondamentali per il raggiungimento di questo obiettivo. Rappresentano il filtro prezioso per leggere tutto ciò che riguarda l’umanità.  Ecco perché Su Re è ambientato in Sardegna, con attori non professionisti e che parlano in lingua sarda. Luoghi, visi, sguardi, lingua e cultura. Con il cinema si può fare tutto questo: raccontare una storia attraverso le infinite storie umane.