Credo di aver sempre amato le erbe, affascinata dai loro deliziosi profumi, tutti unici, e dalle loro splendide forme. Ho avuto un contatto quotidiano con la campagna e  sono sempre stata felice di  vivere immersa nella bellezza naturale, tanto che la sera mi pesava un po’ il rientro in città. Ero molto giovane e mi dedicavo a coltivare il cibo per me e la mia famigliola e a raccogliere quanto più potevo dall’ambiente naturale, sotto la guida esperta e preziosa di babbo Bruno. Cominciai così a conoscere le erbe selvatiche che crescevano intorno a me. Compresi che la terra fornisce tutti gli ingredienti primi per la nostra salute e il nostro benessere e le erbe hanno la capacità di mantenere in equilibrio corpo, mente, emozioni e spirito, basta essere disposti a comprenderne appieno il valore. A distanza di tempo, dopo gli studi e la professione di erborista, la voglia di conoscere sempre di più sulle erbe e sull’animo umano non mi ha appagato, resta anzi la sete di apprendere e capire anche le tradizioni erboristiche degli altri popoli. Le possibilità di scambio e comunicazione con luoghi e culture spesso lontane e sconosciute ci permette di attingere a numerosi sistemi di guarigione e filosofie terapeutiche, e conoscere erbe provenienti da ogni angolo del mondo.

 

Scusate, ho divagato, ma ora torniamo a noi e alla preziosa Romice, pianta antianemica per eccellenza!

 

 

A Nuoro e nella Sardegna meridionale la chiamiamo Lapatu, Lampatu, Lampatzu

 

Nel Sassarese: Alabatu, Alapatu, Arabatu

Nel Logudoro: Limba de cane

A Tempio: Ciduledda

 

Abbiamo una grande varietà di Rumex, ma descriverò la più conosciuta ed usata, la crispus. Il nome deriva dal latino classico rumex, rumicis, ma è interessante notare come il medesimo termine servisse pure per designare un’arma appuntita, ad esempio lancia o giavellotto. E l’immagine di una lancia conficcata nel terreno è rievocata dalla forma dello stelo che spicca sul resto della vegetazione, mentre l’aggettivo crispus, che indica la specie, deriva dalla caratteristica increspatura delle foglie.

 

È una piantina che non piace molto ai contadini e ai giardinieri perché si insedia e prolifica in modo invadente in mezzo alle colture; infatti ama crescere prevalentemente nei prati, nei campi coltivati, in terreni freschi e umidi, dove può affondare il suo rizoma carnoso e lignificato fino a 80 centimetri di profondità, ma si adatta bene a tutti a tutti i terreni. Il suo portamento è cespitoso e i fusti, pur essendo erbacei, tendono a lignificare, superando anche il mezzo metro d’altezza e portando numerosissimi piccoli fiori di colore verde-rossastro riuniti in pannocchie sporgenti. Le foglie basali sono a rosetta, grandi e lanceolate, man mano che salgono sul fusto diventano più piccole e rade.

 

Parti usate: l’utilizzo migliore è quello della radice, ma importanti sono anche foglie e semi.

 

Periodo di raccolta: la radice, da pianta di almeno due anni, si estrae a settembre, le foglie in primavera e i semi d’estate.

 

Componenti chimici: ferro organico, tannini, antrachinoni, rumicina, glucosio, fitosteroli.

 

Impiego terapeutico: anemie essenziali, carenza di ferro, convalescenze, inappetenza, gotta, artrite, dermatiti, eczemi e acne. Ha proprietà diuretiche e aiuta l’eliminazione delle tossine attraverso i reni. È però controindicata per le persone che soffrono di calcolosi renale perché ricca di ossalati.

 

 

Forme e dosi ad uso interno:

decotto: bollire per 10 minuti in mezzo litro di acqua 2-3 cucchiai di radice sminuzzata. Riposo per 10 minuti, filtrare e consumare 2-3 tazzine al giorno prima o lontano dai pasti (come diuretico, diaforetico, depurativo del sangue e rinfrescante intestinale. In dosi più elevate è lassativo).

 

enolito: macerare per una settimana in un litro di vino rosso 30 grammi di radice o foglie. Da usare un bicchierino prima dei pasti come aperitivo e tonico generale.

 

tintura madre: 20-40 gocce tre volte al giorno.

 

Uso esterno:

 

cataplasma o impiastro: applicare la radice o le foglie fresche frullate, mettere la poltiglia in una garza ed applicarla sulla ferita (come cicatrizzante, antiemorragica e antinfiammatorio della pelle).

 

In veterinaria sono utilizzati i frutti perché i semi in esso contenuti sono particolarmente graditi dagli uccellini in cattività  poiché sono ricchi di principi attivi che ne migliorano il piumaggio e lo stato di salute generale.

 

Dulcis in fundo, non meno importante delle sopraccitate qualità del romice c’è quella culinaria!

Avete sentito parlare della minestra gavoese s’erbuzu o del piatto fonnese ministru?

 

Si tratta di un piatto cosiddetto povero a base di erbe campestri, simile a un denso minestrone, che può essere consumato per più giorni anche a temperatura ambiente. Nella preparazione entrano oltre dieci erbe difficilmente reperibili sul mercato: è quindi una ricetta dedicata agli appassionati conoscitori di erbe spontanee che ancora setacciano le campagne alla ricerca di questa risorsa spesso dimenticata nella cucina moderna. Non dovrebbero mancare: lampatu (il nostro romice), àpara (aglio selvatico), mammaluca (caccia lepre), martutzu (crescione), frenucu agreste (finocchio selvatico), beda (bietola selvatica), ermulata (ramolaccio), frustinaca (carota selvatica), crapicheddu (strigoli), tzicòria (cicoria selvatica). Le dosi?

 

Non è possibile stabilire un peso preciso per ogni erba, perché dalla combinazione di quelle che si riesce a trovare si dosa la quantità volta per volta in base alla caratteristica – dolce, amarognola, poco o molto aromatica – di ciascuna. Minestra  sorprendente, quindi, perché sempre diversa!

 

Altro elemento imprescindibile per proporre questo piatto è la qualità ambientale: non si possono certo cucinare le erbe selvatiche cresciute ai bordi delle strade trafficate o nelle vicinanze di qualche fabbrica inquinante.

 

Per concludere vorrei ricordare la citazione che un personaggio dei I promessi sposi del Manzoni fa di questa bella pianta, per alcuni  erbaccia infestante.

 

“Chi, vedendo in un campo mal coltivato un’erbaccia, per esempio il bel Lapazio, volesse proprio sapere se sia venuto da un seme maturato nel campo stesso, o portatovi dal vento, o lasciatovi cader da un uccello, per quanto ci pensasse, non ne verrebbe mai a conclusione”.