corbeddu aquila della montagnaIl 4 settembre 1898 le brigate dei carabinieri di Oliena e di Orgosolo, ebbero un vivo conflitto a fuoco con tre malfattori nella regione Rio Monte a Orgosolo. Rimasero uccisi il famigerato bandito Corbeddu Salis Giovanni, detto anche L’aquila della montagna e un giovane di sedici anni, mentre un terzo uomo riuscì a fuggire. Il Corbeddu, latitante dal 1890, era colpito da dodici mandati di cattura e da una fortissima taglia ministeriale.

 

Accusato, tra l’altro, di tre grassazioni, di una mancata, di una grassazione con omicidio, di due omicidi, di un omicidio mancato, di un furto qualificato e di tre rapine in banda armata si dice avesse partecipato nel maggio 1886, all’aggressione del maggiore dei carabinieri Spada. Appena si sparse la notizia della sua morte, tra le persone ci fu un senso generale di stupore, come la caduta di un mito – quale il Corbeddu era, si può dire senza timore – genera sempre.

 

Ecco come L’Unione Sarda, il 9 settembre, cogliendo le informazioni dalla Nuova Sardegna, che in quel periodo batteva meglio la zona, descrive l’accaduto. Proprio a mo’ di reportage: “Si partì da Nuoro verso mezzogiorno, sotto un sole cocente, coll’intenzione di andare immediatamente al punto in cui era avvenuto il conflitto: ma arrivati ad Oliana si dovette proseguire direttamente per Orgosolo, poiché sul posto non si sarebbe potuto arrivar prima dell’imbrunire. Pernottammo ad Orgosolo […] Il mattino per tempo del cinque ci dirigemmo verso la località, e dopo un’ora e mezza di cammino, abbandonata la strada carreggiabile ci internammo attraverso fitte boscaglie per un sentieruolo. Monti e boschi, nient’altro si offre davanti allo sguardo; non un’anima vivente, non un malandrino, non un contadino. Pochi chilometri più lungi dalla dispensa Mereu, presso il torrente Rio de Monte, la strada diventò così malagevole, così erta, che bisognò smontare di sella e lasciare i cavalli giù nella valle.

 

Eccoci finalmente nel regno di Corbeddu, nella sua sala da pranzo, di ricevimento, e nella sua camera da letto, come egli poco tempo prima aveva chiamato quella regione in presenza di alcuni signori di Nuoro che si trovavano a caccia in quei dintorni. Non ho mai visto un paesaggio così orrido, così selvaggio: da una parte all’altra del torrente si innalzano delle montagne coperte di fittissima boscaglia, con una pendenza tale da sembrar quasi tagliate a picco. Su in alto si vede biancheggiare la cima Baccheddos, a sinistra la collina Zilianu e a destra altre colline ed un contrafforte, a pendenza rapida verso il rio, su cui sorge l’ovile Pedra arba di proprietà di Dore Bernardo noto Caredda, l’amico intimo del Corbeddu.

 

A pochi metri dalla capanna e presso ad una roccia granitica isolata sorge un elce, d’onde si vede gran parte della regione circostante. Questi punti furono il teatro del conflitto. Inerpicandoci, lentamente, dopo aver lasciato giù l’ovile e dopo grandi sforzi attraverso macchie di lentischio e piccoli arbusti resinosi si arrivò ad un piccolo avvallamento di poco sottostante ad un boschetto d’elci chiamato Sa dente de Urzulè, e dove, piantonato da parecchi carabinieri, era il cadavere del Corbeddu, distante dall’ovile poco meno di un chilometro. Veramente non saprei dirvi l’impressione che provai vedendo il corpo esanime di colui che per tanti anni aveva sfidato la giustizia, di colui che senza scrupoli uccideva e rubava; certo è che provai anche molta pietà. Il cadavere era supino, con le mani cadenti lungo i fianchi e con la testa lievemente china verso destra: la bocca e gli occhi erano aperti; più che davanti ad un morto pareva trovarsi davanti ad un dormiente, tanta era la serenità del viso reso anche più dolce da una barba candida e un po’ lunga: era completamente sdentato.

 

Vestiva il costume d’Oliena, con un gilè di velluto marrone alla cacciatora: da un taschino spuntava un orologio d’argento e dall’altro un mazzo di carte. Per terra giaceva vicinissimo il fucile, che credesi sia quello stesso tolto al conte Spada nella grassazione della corriera postale, ed un berretto. Teneva sa lepa alla cintola e dalla cartucciera mancavano nove cartuccie. La camicia al collo era allacciata da due grossi bottoni d’oro. Sul petto nessuna traccia di sangue: solo sotto la mammella sinistra si osservava un buco d’onde era uscito il proiettile e attraverso al quale si vedevano dei pezzettini di carta: per cui pare che la pallottola nel suo passaggio abbia perforato anche qualche libro che il Corbeddu teneva sotto il gilet.

 

Poco lungi dal Corbeddu, a circa cinquanta passi stava il cadavere dell’altro ucciso, Francesco Dore. È un ragazzo di 16 anni: è prono ed ha la testa quasi sprofondata nel suolo. La parte superiore del cranio era letteralmente scoperchiata e la massa cerebrale per terra. Vestiva all’orgolese ed aveva le gambe incrociate. Tutt’intorno una pozza di sangue. I denti eran stretti e le labbra contratte sembravan sogghignare…”. Così l’articolo del 9 settembre, in cui il giornalista non solo descrive la reazione degli abitanti, ma anche il suo viaggio verso il luogo del massacro e le sue espressioni nel vedere il corpo senza vita di colui che per tanti anni aveva sfidato la giustizia. Nell’ultimo articolo, apparso il 10 settembre, si possono trovare ulteriori informazioni sulla cattura e la morte del Corbeddu: “La regione Rio de Monte, compresa tra la cresta Fra Giovanni, alta sul livello del mare oltre 1300 metri, il padente Urzulè, ed il fiume, a circa tre quarti d’ora dalla dispensa Mereu, a tre ore da Orgosolo e a tre ore e mezza da Oliana, sin dai primi tempi della latitanza del Corbeddu, fu sempre il suo punto strategico.

 

Le condizioni topografiche in vero, le rocce dirupate, tagliate a picco tantochè per passare all’altro versante verso nord-est, sono tracciati dei sentieruoli addirittura impossibili, rendono quel territorio un ricovero sicuro e quasi inespugnabile. A renderlo anche più aspro sorgono delle boscaglie fittissime di elci, di corbezzoli, dove si trovano in quantità mufloni, cervi e cinghiali. Gli è perciò che molto spesso in quella regione si recano i cacciatori del circondario, d’onde ritornano carichi di bottino. Raramente si faceva una partita di caccia alla quale non intervenisse il Corbeddu, il quale divertiva un mondo con le sue storielle e col suo brio. Molte autorità in questo modo poterono conoscere il terribile latitante. Su di una collinetta, presso il fiume, sta l’ovile di Bernardo Dore col quale il Corbeddu era legato da antica amicizia. Il questi ultimi tempi poi, da che il bandito non prendeva più parte diretta alle grassazioni, ma si limitava a dare solo ai suoi numerosissimi sudditi dei consigli, la sua frequenza in quei paraggi era più notata.

 

Forse credeva d’aver diritto alla giubilazione, e quindi anche ad una tregua da parte dei carabinieri, e forse non sospettava che nessuno potesse fargli la spia, mentre certamente vi era qualcuno che sorvegliava tutte le sue mosse. La sera del 1° infatti dietro ordini precisi impartiti da Nuoro dal capitano Mauro, verso le nove partirono contemporaneamente da Orgosolo e da Oliana tre squadre di carabinieri diretti a Rio del Monte. La prima squadra era composta del brigadiere Lussorio Cao di Borore e dei carabinieri Spano Gavino e Paradisi Giuseppe, e dopo cinque ore di marcia difficilissima si appostò sul versante sinistro del Rio del Monte a circa 400 metri dall’ovile; la seconda squadra composta dei carabinieri d’Oliena, Moretti Aventino, Loriga Giommaria e Branca prese appostamento alle tre del mattino del 2, sopra l’ovile, a circa un chilometro presso un boschetto roccioso. L’ultima squadra coi carabinieri Chiabai, Porcu e Mancosu si fermò alla cresta Fra Giovanni ad oltre duemila metri dall’ovile. […] Il mattino del 3, il Moretti verso le sei si accorse improvvisamente della presenza su una collinetta vicina di uno sconosciuto, il quale scendendo dalle montagne circostanti si era soffermato, aveva acceso un fuoco e stava a riscaldarsi le mani, tanto era il freddo.

 

Poco dopo vide questo sconosciuto dirigersi alla fontana e lavarsi. Avrebbe ben potuto sparargli addosso, tanto era vicino a lui, ma vedendolo disarmato non sospettò fosse il Corbeddu. Dopo un’altra oretta, lo sconosciuto preso da una macchia un fucile e lo zaino si diresse all’ovile. Non vi era più dubbio: doveva essere il Corbeddu. La squadra Moretti per non compromettere le cose rimase appiattata attendendo il momento opportuno. Poco dopo su un’altra vetta apparve l’altro latitante atteso, Antonio Congiu d’Oliena, già famoso per le sue efferatezze. […] Verso le cinque e mezza, i due latitanti sempre accompagnati dal ragazzo che teneva sulle spalle lo zaino del Corbeddu, mossero dall’ovile dirigendosi verso la montagna sovrastante. Allora anche il brigadiere Cao abbandonò il nascondiglio, si avanzò, passò il torrente ed arrivò all’ovile. I latitanti intanto, accortisi della presenza dei carabinieri che venivano dal bosco, continuarono ad avanzarsi lentamente verso la montagna, sicuri di non poter essere raggiunti, e non sospettando che lassù vi fossero altri carabinieri.

 

Ma avanzandosi il Cao coi suoi sempre più, i latitanti appena arrivati alla base delle rocce sottostanti alla squadra Moretti, fecero fuoco addosso al Cao che si trovava allo scoperto e che fortunatamente non fu colpito. È strano che il Corbeddu, così valente tiratore ed a così breve distanza, poiché fra lui e il brigadiere erano appena 150 metri, non abbia colpito nel segno; si spiega solo coll’agitazione da cui era invaso; si sa infatti che da qualche tempo soffriva orribilmente d’asma. Continuando il Cao ad avanzarsi sempre più e a guadagnar terreno, il Corbeddu, abbandonate le roccie, si diresse verso la destra, ma fu respinto dal carabiniere Loriga della squadra Moretti, che in quel momento entrava in azione. Vistisi tra due fuochi i latitanti si buttarono verso il centro; ma anche qui il carabiniere Branca li respinse; allora vistisi perduti si spinsero di corsa verso la sinistra, unica via di scampo. Qui invece li attendeva la morte.

 

Il carabiniere Moretti, valentissimo tiratore, che all’esposizione di Torino ebbe medaglia d’oro, fece subito fuoco dall’alto della roccia a circa 300 metri di distanza colpendo alla schiena il Corbeddu. Caduto questo, puntò nuovamente e fatalmente uccise il ragazzo, mentre il Congiu riusciva a guadagnare il dorso della collina ed a sparire attraverso i folti macchioni. Le posizioni occupate dai carabinieri, posizioni splendide davvero, il contegno da loro tenuto durante due giorni di appiattamento, senza muoversi, senza mangiare, senza bere, il sangue freddo da tutti dimostrato e specialmente dal brigadiere Cao, che diresse le operazioni e l’attacco esponendosi per più volte alle palle dei latitanti, che ansante, trafelato si spinge sull’erta per raggiungere il Corbeddu, sono certo cose degne di considerazione speciale”.

 

Così si conclude l’articolo, e pure la vita del Corbeddu, l’aquila della montagna. C’è da dire però, che dopo più di cento anni dalla sua uccisione non si è offuscata affatto l’immagine di questo bandito leggendario, che per molti è ancora una figura romantica, nonostante per diciotto anni avesse rubato e ucciso senza alcuno scrupolo.