Avevo 12 anni la prima volta che ho sentito parlare di Missione, seduta in una sala della casa dei Missionari Saveriani a Macomer. Padre Sergio raccontava a noi, piccole e adolescenti, i suoi anni in Brasile e io lo ascoltavo incuriosita, guardando le sue diapositive, incantata. Avevo 12 anni e, tornata a casa, ho detto ai miei genitori: “A diciott’anni parto!”. Adesso di anni ne ho 24 e vivo a Santa Cruz de la Sierra, in Bolivia. È qui che mi ha portato quello sguardo di curiosità verso un mondo che mi sembrava così lontano, è qui che da più di quattro mesi presto il mio servizio di volontariato internazionale. Passando per esperienze estive nella Repubblica Democratica del Congo e in Sierra Leone, da Macomer a Torino per conseguire la laurea in cooperazione allo sviluppo, dalla casa dei Missionari Saveriani all’Oratorio Salesiano in zona San Paolo a Torino.

 

A Santa Cruz, il Progetto Don Bosco, nato grazie a Padre Ottavio Sabbadin, salesiano 74enne e missionario prima in Ecuador e da 20 anni in Bolivia, è formato da 7 case, di cui il cuore è l’Hogar Don Bosco, un istituto per bambini ed adolescenti, tra i 6 ai 18 anni, con problemi familiari; esso accoglie più di 180 ragazzi e offre loro alimentazione, assistenza medica, sostegno scolastico e studio. Il gruppo nel quale sto prestando servizio è un po’ particolare: si tratta della classe dei minori con ritardo mentale o scolare; il mio compito è quello di appoggiare Roxana, educatrice esperta che, da anni, lavora in Hogar. I ragazzi hanno dai 12 ai 17 anni e lavorare con una fascia di età così larga e con problematiche differenti non sempre è facile.

 

Il primo ostacolo che ho incontrato in questi mesi è stato la lingua; diciamo che potrebbe essere vera la frase “il sardo è molto simile allo spagnolo”, ma dipende sempre da chi parla: gli abitanti di Santa Cruz hanno una parlata molto stretta e svelta, utilizzano tantissime parole che non sono proprie del castigliano e, ancor più, lavorando con i giovani, saltano fuori mille modi di dire, che anche gli adulti faticano a comprendere. Mi sono scontrata con una cultura differente, in cui la figura maschile prevale su quella femminile; ciò lo riscontro non solo nella vita quotidiana, in città, ma anche nel rapporto con i ragazzi che non si permetterebbero mai di insultare un educatore, ma non hanno nessun problema a farlo con una educatrice, ancor più se giovane, volontaria e straniera. Tutto questo fa parte di una situazione sociale che colpisce in particolar modo i poveri della città, cresciuta a dismisura negli ultimi 40 anni.

 

È difficile spiegare la povertà con cui ho a che fare ogni giorno perché non è la povertà che siamo abituati a vedere nelle pubblicità progresso che ci mostrano il video del bambino africano, scalzo e con la pancia gonfia. Quella che vedo è una povertà di valori in una città in continuo sviluppo economico, dove si apre sempre più il divario tra ricchi e poveri. Scorgo la povertà in una madre che lascia il bambino in Hogar perché non ha la disponibilità economica per farlo mangiare e studiare, così come la vedo in quella madre che decide di abbandonare suo figlio dimenticandosi di lui. Sono povertà differenti e la seconda mi fa arrabbiare, ma mi spiazza anche, perché non so come affrontarla, perché mi mette in discussione come persona e ancor di più come donna.

 

Più di una volta mi son chiesta cosa posso fare per questi bambini che hanno alle spalle un passato problematico e non riescono a sognare un futuro.. Riesco a darmi poche risposte, ma credo che in ogni parte del mondo l’essenziale risieda nella semplicità! Ancor più credo nella veridicità di questo concetto se penso a Darwin, 14 anni: abbiamo deciso di premiarlo perché per tutto il mese di Giugno si è comportato bene; ha quindi avuto la possibilità di scegliere un premio. Alla mia domanda su cosa desiderasse mi sono sentita rispondere “un kiwi, perché non ne ho mai mangiato uno!”. Mi commuove scriverlo e mi commuove il ricordo del suo sguardo mentre assaporava quel frutto, che aveva sempre visto ma che non poteva comprare perché troppo costoso per lui e ancor più per l’Hogar che serve pasti a tutti i 180 ragazzi ogni giorno!

 

Quando mi chiedono cosa faccio, un po’ mi sento in imbarazzo perché in realtà non faccio niente di particolare, niente che non avrei potuto fare a Macomer o a Torino, semplicemente vivo problematiche diverse, in una cultura diversa, facendo tanta fatica, ma anche prendendomi tutti gli attimi di gioia che questi bambini e ragazzi vivono e mi regalano! Da parte mia penso di dar poco e ricevere tanto, nel bene e nel male, in una discussione e in un abbraccio perché non si tratta di fare, ma di stare, conoscere, vivere e condividere. Darwin mi ha regalato il suo attimo di gioia e io lo conserverò, perché anche quel momento è entrato a far parte di quel bagaglio di esperienze che riempiono la mia vita e la fanno così bella e sorprendente. Ciò che desidero per questi ragazzi è che imparino a sognare, per poter arrivare a fare di un sogno il loro progetto, per poter arrivare, una volta grandi, a vivere quel desiderio pensato da adolescenti, proprio come lo sto vivendo io. Per poter arrivare a dire, nonostante le fatiche e le difficoltà: “Sono felice!”.