Asu coro meu aione a goddiremur granada, femina male coiada chin-dun’omine iscumbessu…. ovvero: “cuore mio fatti forza, per andare a raccogliere melagrane, donna sposata male con un uomo malandato”. È l’inizio di una lunga poesia, composta in un sardo elegante e antico, un dialetto orgolese con qualche influsso urzuleino e forse anche mannorrino, considerato il contesto e i motivi che hanno ispirato questo componimento. L’esordio: “a su coro meu aione” è tipico di diverse poesie che ritroviamo in vari paesi della Sardegna, ma il resto del testo colpisce per la profonda tristezza e la rassegnazione che traspaiono.

 

Tutto nasce a Mannorri, un paese posto tra Urzulei e Talana, che secondo la memoria storica o la leggenda, ma le due cose spesso sono inscindibili, fu abbandonato sul finire del ‘700 a causa di una rovinosa faida, ed è in questo piccolo villaggio che si consumarono le storie di due donne legate da un triste destino. Si racconta che in un giorno di primavera o d’estate, forse per la festa de S’Anghelu, ebbero inizio le inimicizie. Giuanni Indentiu, soprannominato così perchè quando nacque pare avesse già tutti i denti (particolare che fu considerato dalla comunità come un cattivo presagio), era un giovane brutto, pariat un’istria (un barbagianni) e s’innamorò perdutamente della bella del villaggio di nome Dominica o Dominica Angela Cicilloi, detta “Sa bella ‘e Mannorri”. Ma il cuore di Dominica era tutto per un giovane di Orgosolo che portava a pascolare il bestiame nei campi mietuti di Mannorri ( juchiat ‘os pecos a istùla in Mannorri): fu allora che i due si conobbero.

 

Durante i balli, Giuanni, secondo una delle versioni, vinto dall’amore osò baciare in pubblico Dominica, suscitando la reazione violenta dei parenti di lei. Secondo altri, sopraffatto dalla gelosia gridò a voce alta: jeo soe Giuanni Indentiu! Ada a currere su sambene a erriu! E si scagliò contro il rivale in amore, trafiggendolo con la leppa. ‘Or mannor de Orthullè (gli anziani di Urzulei) raccontano di scene terribili, tra il fuggi fuggi generale e le grida si consumò il primo e cruento scontro.

 

Si affrontavano l’uno contro l’altro con tutto quello di cui disponevano, in cussos urgos si fun jocaos a leppas e a ispìdos… falaiat su sambene a errìos e a trubos (in quei vicoli si sono massacrati con coltelli e spiedi…..scorreva il sangue a fiumi e a fiotti). A seguito della cruenta battaglia, che si dice lasciò sul campo una ventina di morti, la bella Dominica morì di crepacuore tra le braccia della madre. Questo è ciò che la memoria storica di Urzulei ha conservato, ma leggendo tra le righe di racconti (ascoltati alla fine degli anni novanta) e dai documenti cartacei esistenti, emerge una realtà più complessa, e forse più credibile, su come si siano svolti realmente i fatti e su quali siano state le cause che portarono all’estinzione Mannorri. Al riguardo è importante inquadrare il contesto storico ed economico in cui si trovava il villaggio.

 

Come si evince dai registri delle imposte di epoca pisana e spagnola e dai Quinque Librorum della Chiesa, nel periodo che va dal 1300 a fine 1700, questo villaggio ha sempre avuto, con alterne vicende, una popolazione che si attestava su una media di 60 abitanti.

 

Mannorri, il cui nome secondo l’interpretazione più credibile (I. Miglior)1 deriva dal sardo mannu (grande) orri (granaio), era un paese che aveva nel monte gli ottimi pascoli di Lathorbè, Paules e Fennau e a valle possedeva terra fertile, che gli consentiva la conduzione di una discreta attività agricola. Si dice che i suoi abitanti avessero molte vigne (una campagna è chiamata ancora bingias de Mannorri), mandorleti, piante di melograno e di gelso (da quest’ultimo ricavavano tramite la cura dei bachi, la seta). Avevano anche molto bestiame bovino e suino.

 

Pare che molti fossero notarios (notai), vale a dire persone che conoscevano la scrittura, cosa per quei tempi non comune, se pensiamo che sia ad Urzulei che a Talana, nelle cerimonie feudali del sei e dell’otto Ottobre 1744, fatte per sancire la presa di possesso dei territori da parte del nuovo marchese di Quirra, che era allora Sua Maestà Carlo Emanuele III, nessuno dei capi famiglia seppe apporre una firma. Urzulei e Talana al contrario, erano per quei tempi e per quei luoghi centri più popolosi, nel senso che, se consideriamo attendibile il censimento del 1751, il primo era un villaggio che si attestava su 425 abitanti circa e il secondo su 285.

 

C’è da credere che urzuleini e talanesi nulla abbiano fatto per ricomporre i dissidi; ma che al contrario abbiano cercato, come succede nella storia “studiata”, quella tra gli Stati che “contano”, di utilizzare tutti gli stratagemmi per accelerare il declino del piccolo villaggio, in ossequio al brutto motto mors tua vita mea. Secondo il racconto di un anziano di Urzulei, pare che un certo Peppe Serra di Mannorri, abbia cercato di fare da paciere (omine ‘e mesu), al fine di ricongiungere le fazioni avverse, po torrare a pesare sa ‘idda (risollevare le sorti del paese), ma lo trovarono ucciso in località ‘As cannas (oggi in territorio di Talana), mentre preparava il ricovero per una scrofa (fudi aullando una sue).

 

In questo contesto storico di fine ‘700, che vedeva i regnanti di Savoia e il potere ecclesiastico in tutt’altre faccende affaccendati, poiché in Europa già si sentivano i primi vagiti dell’imminente Rivoluzione francese e gli eventi in Sardegna preconizzavano i Moti Angioyani, con il così detto “Triennio rivoluzionario sardo”, a chi poteva interessare la fine di Mannorri? Chi poteva avere a cuore un piccolo e ininfluente villaggio dell’estrema Ogliastra? Regione chiamata forse anche a quei tempi Barbagia Trigàle, Trigadìa o qualcosa di simile (che dovrebbe significare: lontana). Fu così che il villaggio, insieme ai suoi usi e costumi e alla sua parlata, si avviò verso il declino, i mannorrini superstiti si rifugiarono in buona parte ad Urzulei e Talana, qualcuno forse a Triei, Barisardo e Tortolì.

 

Gli ursulerini, come scrive il canonico Vittorio Angius nel “Dizionario del Casalis”, occuparono, manu armata e contro gli ufficiali baronali, il salto di Mannorri, e per diversi decenni risulta che pagarono loro le imposte per questo villaggio. Fino ai primi dell’800 il villaggio continuò ad esistere dal punto di vista giuridico, ma di fatto era da tempo abbandonato. In seguito tutto non fu mai ben chiaro, sia i confini tra Urzulei e Talana, che la divisione delle proprietà e dei diritti cussorgiali nel territorio di Urzulei dopo l’annessione ad esso del salto di Mannorri.

 

Forse questa situazione di incertezza, può essere stata la causa che ai primi dell’800, diede origine ad Urzulei ad una sanguinosa e lunga faida che coinvolse molte famiglie. In modo particolare i Balisai (originari di Mannorri) e i Mesina-Taula, gruppo parentale che forse non a caso, gravita tutt’oggi dove un tempo c’erano le proprietà private dei mannorrini e ‘as cussorgias (antico istituto che consentiva a gruppi familiari il pascolo, il legnatico e il ghiandatico in determinati territori comunali).

 

Infine, il 18 Luglio del 1842, dopo non poche tensioni, fu stabilito e in seguito formalizzato con atto notarile, che i tre quinti del territorio mannorrino spettassero ad Urzulei e i due quinti a Talana. Tracciato questo quadro sommario, sembra quindi credibile la tesi secondo cui il gesto di Giuanni Indentiu, sia stato come la classica goccia che ha fatto traboccare il vaso. Un episodio che va inquadrato in un contesto in cui esistevano, probabilmente, altri interessi in gioco e più fattori concorrenti che contribuirono a indebolire il piccolo villaggio, non ultime le numerose epidemie che affliggevano l’Ogliastra tra il 1755 e il 1780.

 

Inoltre, è strano il fatto che l’ultimo atto dell’ultimo dei Quinque Librorum della chiesetta di S. Basilio (il libro dei decessi) si chiuda con la morte di Francesca Alisai, donna che tra tutti i deceduti dal 1758 al 1777, risulta essere la più ricca. I suoi funerali si svolsero cum laudes, pausas, y toda la de mas pompa funeral. Su cuerpo fue sepultado dentro de la Parroquial Iglesia de San Basilio. Fra le date che segnano la fine del villaggio, la più accreditata è il 1778, Francesca Alisai morì il 3 Luglio del 1777 e, come risulta dall’atto di morte scritto dal parroco del paese Salvador Mulas, per non si sa quale motivo, ella non fece testamento.

 

Si può ipotizzare che anche quest’ultimo episodio, possa essere stato causa di tensioni, in particolare tra i successori della defunta, tensioni forse tali, da contribuire anch’esse all’inesorabile declino della piccola comunità. Questa è, a grandi linee, di certo con qualche inesattezza e molte parti mancanti, la storia-leggenda di Mannorri e di Dominica Cicilloi, detta: “Sa bella ‘e Mannorri”.

 

Storia che non va confusa, come a volte avviene, con quella di un’altra donna: “S’isposa ‘e Mannorri”, la ragazza orgolese a cui sono attribuiti i versi dell’omonima poesia, cantata mirabilmente in ballu dalla voce di Peppone Mulas del tenore S. Antoni di Urzulei. Ultimamente, grazie a una composizione del maestro di pianoforte Luca Nulchis, la poesia viene cantata anche dai gruppi musicali Le Balentes e Andira.

 

S’Isposa ‘e Mannorri, era una giovane di Orgosolo, che ebbe la sventura di sposare il sagrestano di Mannorri, un’omine iscumbessu (fatto al contrario) bugiardo e cattivo, che la ingannò promettendogli una vita migliore. La storia, così come è stata raccontata da una donna di Urzulei, dice che il sagrestano, prima del matrimonio, rubò il baldacchino (drappo di stoffa pregiata) dalla chiesa di Mannorri e lo diede in dono alla ragazza per farsi sa este (la gonna), ma la madre della ragazza si insospettì e prima che questa iniziasse a confezionare l’abito per le nozze, disse: lassa sas forthihes fizza me! (figlia mia, lascia stare le forbici!). E informatasi, venendo a sapere la triste verità, disse: fizza mea ‘e su coro, su baldachinu dae cresia si c’at ‘uradu s’isposu tuo!

 

Celebratosi il matrimonio ad Orgosolo, i due si diressero verso Mannorri, luogo che scelsero come dimora. Durante il viaggio a cavallo, oltrepassato il confine tra i due paesi e giunti a Fennau, la ragazza vedendo dei maiali, chiese al marito: de chie suni sos polhos? e lui rispose: mios; più in là vide delle vacche e chiese: de chie sun sar vahas? E l’uomo rispose: mias. Quando giunsero nel monte sopra Mannorri, si fermarono a osservare il paese dall’alto e la ragazza chiese: ‘al’est sa domo nostra? E l’uomo le rispose: cussa prur manna! E indicò la chiesa. Una volta giunta nel paese, la giovane vide la misera abitazione del sagrestano e si rese conto che la vita per lei sarebbe stata infelice e dura. Un giorno, vinta dallo sconforto iniziò a cantare:

 

a su coro meu aione

a goddiremur granada

femina male coiada

chin-d-un’omine iscumbessu

juttu m’at bentu travessu

travuntana mi brullesi

sa die chi t’amoresi

mi ch’eren postu in sa ruche

pro sos modos chi mi juchet

pro sos modos chi mi portat

menzus sepurtada e morta

chi non bennida a su mundu…

 

È interessante notare come in entrambe le vicende, svoltesi probabilmente in tempi tra loro vicini, entri in scena Orgosolo, e come in entrambi i casi questo paese subisca un torto, prima con l’inganno di una sua ragazza e in seguito con l’uccisione di un suo giovane. A quei tempi, quando i paesi erano delle vere e proprie comunità-stato spesso in conflitto tra loro, per un piccolo villaggio come Mannorri, avere offeso il più popoloso Orgosolo, può essere stato un errore fatale.

 

È probabile, che fra Mannorri e Orgosolo ci fosse stato un rapporto d’intesa e scambio, in cui gli orgolesi avevano la possibilità di portare le greggi nei vasti pascolidi Mannorri, come fece lo stesso giovane che fu ucciso da Giuanni Indentiu, e i mannorrini in cambio beneficiassero della “protezione” di Orgosolo. Nel momento in cui questo rapporto si incrinò, il destino di Mannorri fu segnato.